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Lo
spazio bianco
di
Francesca
Comencini
convince
l'esigente platea festivaliera veneziana. La drammatica pellicola,
tratta dal romanzo omonimo di
Valeria
Parrella,
affronta il delicato tema della maternità, maternità sofferta in
quanto prematura e "illegittima" - ebbene si, ancora oggi
in Italia vengono definiti così i figli non riconosciuti dal padre.
Lo spazio bianco è il limbo in cui Maria attende la seconda nascita
di sua figlia, venuta alla luce dopo soli sei mesi di gestazione e
rinchiusa in un'incubatrice in attesa di capire se riuscirà a
sopravvivere o no. Lo spazio bianco è anche la vita di Maria prima
della nascita di Irene, un eterno presente condiviso con se stessa e
costellato di impegni quotidiani, dal lavoro di insegnante alla
passione per il cinema pomeridiano, da qualche fugace relazione
sentimentale alla scelta di trasferirsi a Napoli. A differenza di
molte altre pellicole ambientate nel capoluogo campano, la Napoli
fotografata dalla Comencini è una città livida e astratta, distante
e silenziosa. Privata dei luoghi comuni che la caratterizzano e della
sua identità più solare e
sanguigna,
Napoli diviene testimone distaccata degli eventi occorsi a Maria.
Solo pochi tocchi richiamano il mondo della Napoli criminale nota al
mondo: la scorta che non abbandona mai il magistrato che abita nel
pianerottolo di Maria, i rapidi accenni all'usura, tratti che evocano
un universo completamente avulso dalla realtà che scorre davanti ai
nostri occhi in quanto il vero focus del film è una vicenda intima e
personale, tanto privata quanto una maternità può essere. Questa
atmosfera rarefatta e sognante, questa fotografia grigio perla che
domina l'intera pellicola ben rappresenta il
limbo
in cui galleggia la protagonista, sospesa nell'attesa della vita o
della morte. A dar volto alla sofferente Maria è Margherita
Buy
che, con la sopraggiunta maturità, sembra aver finalmente
abbandonato il ruolo da sempre impostole di donna sull'orlo di una
crisi di nervi per approdare a personaggi più complessi e
sfaccettati. La Buy si carica sulle spalle il peso dell'intera
pellicola fornendo un'interpretazione convincente e misurata, aiutata
anche dalla sceneggiatura efficace della Pontremoli che non indugia
più del dovuto sui risvolti melodrammatici della vicenda. La sua
Maria è una donna volitiva che si accosta a un universo
completamente nuovo, quello della maternità, dimensione che,
nonostante le idee circolanti nella nostra Italia cattolica e
paternalistica, non è così istintiva e scontata per tutte le donne.
La maternità di Maria è qualcosa di non voluto o cercato, qualcosa
che accade per caso in un momento della vita in cui la solitudine e
la ricerca dell'amore sembrano avere la meglio sull'indipendenza
della solitaria protagonista. In questo universo privo di riferimenti
ideologici o religiosi espliciti, dove parlare di retorica
protofemminista è ormai anacronistico, la sobrietà e il pudore con
cui Francesca Comencini affronta la rappresentazione del dolore ci fa
apprezzare la sua pellicola confutando l'etichetta già affibbiatale
di “film per sole donne “ .
.
(
a cura di Valentina D’ Amico, giornalista di 24 Ore e de Il
Fatto Quotidiano )
Soverato,
22 novembre 2010
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